martedì 20 dicembre 2011

La Fornero alla crociata (contro l'art. 18)

Ci risiamo. Un nuovo attacco all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Stavolta è la ministra Fornero che, asciugatasi le lacrime versate per i pensionati, guida la crociata contro l'obbligo di giusta causa o giustificato motivo per licenziare nelle aziende con più di 15 dipendenti (il 5% del totale delle imprese italiane, secondo i dati ISTAT). I sindacati reagiscono e la ministra si dichiara "dispiaciuta e sorpresa" (attenti a non farla piangere!) del fatto che i sindacati abbiano osato eccepire: la sua, dice " è solo una offerta di dialogo". Se questi sono i suoi dialoghi, meglio non parlare con lei.
Le reazioni della politica non si sono fatte attendere: Bersani dice: "Ora facciamoci il Natale. E lasciamo stare l'articolo 18. Mi pare che c'è già da digerire qualcosa". No, non è Crozza che fa Bersani (anch'io l'avevo pensato) è proprio Bersani che, dovendo tenere insieme le posizioni di Ichino con quelle di Fassina, cerca ovviamente di prendere tempo. C'è da giurare che dopo Natale vorrà aspettare Capodanno, la Befana, carnevale eccetera. Va bene, ci mancherebbe, se questa "melina" ha l'effetto di non toccare l'articolo 18. Ma è imbarazzante che il segretario del più grande partito "progressista" italiano non sia in grado di difendere l'articolo 18 nel merito e cerchi motivi per rimandare la discussione. Casini riesce addirittura a dire che l'articolo 18 non è un totem (infatti, un totem sono le crociate che vengono fatte contro una simile conquista di civiltà), Cicchitto dice: "ce lo chiede l'Europa", come dire: "io non vorrei, però...", dimenticandosi però che una delle prime cose che fece il governo Berlusconi Bis (anno 2001), fu appunto proporre l'abolizione dell'articolo 18: nell'agosto dello stesso anno, il ministro Marzano fece la proposta di abolire i contratti a tempo determinato in cambio dell'abolizione dell'articolo 18. Esattamente la proposta, pare, della Ministra Fornero. Siccome non è giusto che ci siano lavoratori precari e lavoratori "stabili" che si fa? Si precarizzano di fatto tutti. "Equità" raggiunta con il livellamento verso il basso delle classi lavoratrici. C'è da dire che una proposta del genere l'aveva già fatta Franco Debenedetti, allora senatore ulivista, nel 1997, ma sorvoliamo.  Di Pietro, il solito furbetto, preannuncia opposizione, dimenticando di aver votato, in Europa, norme come la Bolkenstein o il Six Pack. Gianfranco Fini rilancia le ragioni che furono di Marzano dieci e passa anni fa: "Non più contratti a termine ma per i neo assunti contratti a tempo indeterminato. In cambio, se per le aziende le cose dovessero andare male, la possibilità di una maggiore flessibilità in uscita, possibilità di licenziare che oggi con l'articolo 18 è più complicato". Apparente buonsenso. Come dargli torto? Se una azienda va male deve poter licenziare. Altrimenti dovrà continuare a pagare gli stipendi e questo aggraverà la sua situazione finanziaria. Non so se il Presidente della Camera ci sia o ci faccia. Siccome ho stima della sua intelligenza, credo che ci faccia. L'articolo 18, infatti, prevede la giusta causa o il giustificato motivo per il licenziamento. Già mi pare paradossale un dibattito, in una situazione di crisi come questa, in cui si possa pensare di liecnziare una persona SENZA una giusta causa, ma, anche qui, sorvoliamo.  Torniamo al punto: fra i casi di giustificato motivo oggettivo sono previsti:

- la chiusura dell'attività produttiva;

- la soppressione del posto di lavoro;
- introduzione di nuovi macchinari che necessitano di minori interventi umani;
- affidamento di servizi ad imprese esterne;
- superamento del periodo di comporto del periodo massimo di malattia;
- sopravvenuta inidoneità del lavoratore a svolgere le sue mansioni.

In più ovviamente ci sono le fattispecie di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo, che attengono al comportamento scorretto del lavoratore. Quindi se una azienda va male può licenziare quanto vuole. Ne sanno qualcosa i lavoratori di un imprecisato numero di aziende garndi e piccole nel paese, che in questi anni di crisi hanno perso il lavoro. E se un lavoratore si comporta male (rifiuta di svolgere le mansioni a lui regolarmente assegnate, picchia o minaccia qualcuno, ruba, sabota macchianri, ha una condotta penalmente rilevante anche fuori dal posto di lavoro eccetera) può essere licenziato ai sensi dell'articolo 18. Ricapitoliamo: se l'azienda va male può licenziare. Se il lavoratore è un farabutto si può licenziare. Quindi, chi rimane da licenziare? magari il lavoratore che sciopera? magari il sindacalista o l'attivista politico che rivendica certi diritti? Perché altrimenti non si spiega.
Mi pare chiaro che la battaglia contro l'articolo 18, portata avanti dagli ambienti neoliberali ovunque collocati (a destra quanto a "sinistra" - si fa per dire - quanto fra i cosiddetti "tecnici") sia una crociata, una questione di principio più che sostanziale (lo ricordavo prima: l'articolo 18 riguarda solo il 5% delle aziende, una piccola minoranza dei lavotratori), volta a sradicare non un totem, ma una conquista simbolo del movimento operaio del secolo scorso, per sottolineare, come ho scritto qualche mese fa in un altro post,  che "una precisa scelta di classe, secondo la quale la ricchezza e la prosperità delle classi dominanti, del capitale, non può che passare attraverso l'annichilimento dei diritti dell'antagonista di classe, il lavoro salariato, appunto". Chi pensava che da questo punto di vista il governo Monti sarebbe stato migliore del governo Berlusconi, purtroppo, si sbagliava.

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