lunedì 12 settembre 2011

Il capitale a scuola da Marx e Catone

Mi è capitato di rileggere quanto scrivevo, più o meno un anno e mezzo fa (il 28 aprile 2010 per l'esattezza) relativamente al cosiddetto "collegato lavoro", nel quale il governo Berlusconi mise in pratica uno dei suoi tanti attacchi al mondo del lavoro. La nota è ancora visibile sul mio profilo di facebook, ma la copio incollo qui sotto:

"Credo che si debba innanzitutto riconoscere al governo una certa “coerenza” ed una certa “perseveranza” su questa materia. L’attacco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori viene da lontano. Un attacco già tentato nel 2002 e già respinto all’epoca, grazie soprattutto alla mobilitazione della Cgil e della sinistra di alternativa, che a quei tempi era forte in Parlamento e nella società. C’era quindi stato il tentativo di intervenire sui diritti dei lavoratori precari, con il Decreto Legge 25.6.2008, n. 112, dichiarato poi illegittimo dalla Corte Costituzionale. Un attacco che dà quasi l’impressione di voler essere “dimostrativo”: l'operazione sull'articolo 18, che non sarebbe scomparso formalmente ma che sarebbe stato svuotato di significato, se non altro perché servirsene sarebbe stato molto più difficile, arriva infatti dopo diversi interventi miranti a smantellare tutte le tutele; e dopo aver introdotto altre due tipologie di lavoro precario (il lavoro a chiamata e quello in affitto). Mettendo tutto insieme, pare che ci sia un tentativo di utilizzare la crisi per ridisegnare l'assetto sociale del paese, prefigurando un precariato di massa e l'assenza di tutele. Sostituite da arbitrato, conciliazione, ecc. dove il lavoratore è solo e indifeso. Non a caso, forse, il ministro Sacconi, dal palco del congresso della UIL ha esplicitamente affermato che ci sono tutte le “carte in regola” per andare verso un nuovo statuto dei lavoratori.




Un tentativo, quello di togliere definitivamente di mezzo l’articolo 18, che si è infranto contro il rinvio alle camere del ddl da parte del Presidente della Repubblica, con la motivazione che "occorre verificare che le disposizioni siano pienamente coerenti con la volontarietà dell'arbitrato e la necessità di assicurare un'adeguata tutela del contraente debole". Ossia del lavoratore.

A seguito del rinvio alle camere del ddl c’è stata la necessità di “correggere il tiro” da parte di governo e maggioranza. Questo il senso dell’emendamento, presentato da Giuliano Cazzola, relatore del PDL nella Commissione Lavoro della Camera, che rivede l’articolo 31 nel senso che l’arbitro non può sostituirsi al giudice per quanto riguarda le controversie che riguardano il licenziamento.

Governo e Maggioranza rivedono, quindi, sulla base delle indicazioni del Presidente della Repubblica, la parte del testo normativo più controversa, ma permangono forti criticità: la certificazione in deroga ai contratti collettivi nazionali di lavoro e i vincoli al ruolo del giudice del lavoro; la sostanziale derogabilità di leggi e contratti, possibile con l’arbitrato di equità che resta preventivo al manifestarsi della controversia eccetera.

Credo tuttavia che questo ultimo tentativo di affossare l’articolo 18, questo ultimo attacco ai diritti dei lavoratori dipenda prima di tutto da un dato culturale. Il lavoro non è visto (in generale, spesso anche dagli stessi lavoratori) come il fattore più nobile della produzione, così come riconosciuto dalla Corte di Cassazione ma, intimamente, nel senso comune, nel pensiero dominante ("unico" si sarebbe detto qualche anno fa), il lavoro viene visto come una merce al pari di tutte le altre, che come tutte le altre si comporta. Anche e soprattutto in relazione alla legge principale dell’economia di mercato: la legge di domanda e offerta. Come tutte le merci aumenta il proprio valore quando la domanda sopravanza l’offerta e viene deprezzata quando la domanda è scarsa rispetto all’offerta. In tempi di crisi il lavoro perde di valore, nella percezione generale. Quindi può essere in promozione, a svendita, in offerta speciale. Come qualsiasi merce. Una percezione bipartisan: se da una parte lo schieramento parlamentare promotore del ddl 1167 B oggi ha dimostrato qualche incrinatura, più strumentale che strutturale, dall’altra due amministrazioni comunali toscane, una guidata dal centrodestra, Lucca, una dal centrosinistra, Firenze, propongono l’apertura dei negozi il 1° maggio. Il portato simbolico di un simile provvedimento è evidente e non necessita di commenti.

L'attacco ai diritti dei lavoratori messo in atto con il DDL 1167 B quindi viene da molto lontano, ben da più lontano, credo, del primo assalto all’articolo 18 nel 2002. Se anche venisse respinto in toto, sarebbe questione di tempo: prima o poi si rimetterebbe in discussione l’articolo 18 e tutto il resto, magari non necessariamente da destra."

Non ho doti divinatorie, diciamo che la mia profezia era abbastanza semplice. Se non altro perché il governo Berlusconi aveva mostrato, da ormai svariati anni, di non digerire l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che vieta il licenziamento SENZA giusta causa nelle aziende con oltre 15 dipendenti... perché è bene ricordarlo, quelle con meno di 15 dipendenti potevano già licenziare senza giusta causa. Adesso, sfumata l'ipotesi "arbitrato", scontratasi contro il rinvio del Presidente della Repubblica che ha costretto il governo a togliere a un simile strumento di conciliazione di decidere si licenziamenti, arriva la possibilità di un contratto aziendale di cancellare di fatto l'articolo 18, possibilità prevista dal famigerato articolo 8 della manovra Finanziaria che oggi approda alla Camera dei Deputati, probabilmente blindata dalla richiesta del voto di fiducia. Peraltro, non si capisce bene perché una simile norma dovrebbe essere ricompresa in una manovra finanziaria: la possibiltà di "licenziare facile" non mi pare sia utile a reperire risorse per le casse pubbliche. Mi pare più di rivedere l'attitudine del senatore romano Catone il Censore, che soleva chiudere tutte le sue orazioni con la famosa frase "Ceterum censeo Carthaginem esse delendam" ("Inoltre ritengo che Cartagine debba essere distrutta") anche quando si parlava d'altro, solo per ribadire ostinatamente questa sua convinzione, secondo la quale la grandezza di Roma necessitava della fine dell'ingombrante vicino. Allo stesso modo, l'inserimento di una norma che ribadisce l'attacco ai diritti dei lavoratori all'interno di una norma che dovrebbe "parlare d'altro", non fa che sottolineare la volontà di questo governo e di questa maggioranza parlamentare di abbattere i diritti del lavoro. A ribadire una precisa scelta di classe, secondo la quale la ricchezza e la prosperità delle classi dominanti, del capitale, non può che passare attraverso l'annichilimento dei diritti dell'antagonista di classe, il lavoro salariato, appunto. Non si può non notare come, da un altro punto di vista, si assume uno degli assiomi esplicitati da Marx e Engels nel Manifesto del Partito Comunista: "La storia di ogni società civile sinora esistita è storia di lotta di classi". Loro, i capitalisti, lo sanno bene, e sanno anche che perseverare nella lotta, magari anche attraverso diversivi, ritirate tattiche momentanee, paga sempre. Dovremmo cercare di ricordarlo anche noi.








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