mercoledì 24 novembre 2010

Bunga bunga e "collegato lavoro"

Ieri, martedì 23 novembre 2010, è definitivamente entrato in vigore la legge 183/2010, già conosciuta come DDL 1167B, approvata dalla Camera dei Deputati lo scorso 19 ottobre. Si tratta del famigerato "Collegato lavoro", già rinviato alle Camere la sorsa primavera dal Presidente della Repubblica, anche a seguito della mobilitazione contro le pesanti ingiustizie che introduceva nel nostro diritto del Lavoro. Approvato, insomma, mentre i media ci raccontavano di Ruby e del "bunga bunga". E noi ci facevame bellamente distrarre da questa squallida vicenda.

Credo che si debba innanzitutto riconoscere al governo una certa “coerenza” ed una certa “perseveranza” su questa materia. L’attacco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori viene da lontano. Un attacco già tentato nel 2002 e già respinto all’epoca, grazie soprattutto alla mobilitazione della Cgil e della sinistra di alternativa, che a quei tempi era forte in Parlamento e nella società. C’era quindi stato il tentativo di intervenire sui diritti dei lavoratori precari, con il Decreto Legge 25.6.2008, n. 112, dichiarato poi illegittimo dalla Corte Costituzionale. Un attacco che dà quasi l’impressione di voler essere “dimostrativo”: esso arriva infatti dopo diversi interventi miranti a smantellare tutte le tutele; e dopo aver introdotto altre due tipologie di lavoro precario (il lavoro a chiamata e quello in affitto). Mettendo tutto insieme, pare che ci sia un tentativo di utilizzare la crisi per ridisegnare l'assetto sociale del paese, prefigurando un precariato di massa e l'assenza di tutele. Sostituite da arbitrato, conciliazione, ecc. dove il lavoratore è solo e indifeso. Non a caso, forse, il ministro Sacconi, qualche mese fa dal palco del congresso della UIL ha esplicitamente affermato che ci sono tutte le “carte in regola” per andare verso un nuovo statuto dei lavoratori.


Un tentativo, quello di togliere definitivamente di mezzo l’articolo 18, che si è dapprima infranto contro il rinvio alle camere del ddl da parte del Presidente della Repubblica, con la motivazione che "occorre verificare che le disposizioni siano pienamente coerenti con la volontarietà dell'arbitrato e la necessità di assicurare un'adeguata tutela del contraente debole" (cioè il lavoratore), ma che è stato successivamente reiterato, pur con parziali modifiche, obbligando il Quirinale ad apporre, questa volta, la sua firma.

Nel testo approvato l'accordo fra le parti (ovvero la clausola compromissoria), che costituisce il presupposto della procedura arbitrale, non potrà riguardare le controversie in materia di licenziamento. Il collegio arbitrale, inoltre, dovrà giudicare non più soltanto nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, ma anche dei principi regolatori della materia: fra i quali notoriamente rientra il carattere normalmente inderogabile della norma di legge lavoristica e delle clausole dei contratti collettivi.

Permangono comunque fortissime criticità: innanzitutto il carattere di fatto obbligatorio dell'arbitrato. Neppure chi non ha mai avuto il piacere di non aver lavorato neppure un giorno in vita sua può credere he nella fase iniziale del rapporto i lavoratori (specialmente se precari o delle imprese con meno di 15 dipendenti, dove è previsto il licenziamento senza giusta causa) possano manifestare liberamente il proprio consenso alla rinuncia alla giustizia ordinaria in favore di quella arbitrale.


Poi i drastici termini di decadenza (60 giorni) per la possibilità di ricorrere in giudizio: il lavoratore precario dovrà porsi il dilemma se ricorrere e quindi precludersi la possibilità di riuassunzione, o sperare di essere riassunti e quindi precludersi la possibilità di impugnare il contratto. Norma questa peraltro addirittura retroattiva, vale ciè anche per i contratti cessati prima dell'entrata in vigore della legge. Chi intende ricorrere deve farlo quindi prima del 24 gennaio 2011.
Si prevede inoltre la forfettizzazione del risarcimento del danno spettante al lavoratore che si sia visto riconoscere l'illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro. Il risarcimento non è più commisurato al danno effettivamente subito dal lavoratore, ma viene "monetizzato"  fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità di retribuzione. A prescindere da tutto il resto.

Credo che  questo ultimo attacco ai diritti dei lavoratori dipenda prima di tutto da un dato culturale. Il lavoro non è visto (in generale, spesso anche dagli stessi lavoratori) come il fattore più nobile della produzione, così come riconosciuto dalla Corte di Cassazione ma, intimamente, nel senso comune, nel pensiero dominante ("unico" si sarebbe detto qualche anno fa), il lavoro viene visto come una merce al pari di tutte le altre, che come tutte le altre si comporta. Anche e soprattutto in relazione alla legge principale dell’economia di mercato: la legge di domanda e offerta. Come tutte le merci aumenta il proprio valore quando la domanda sopravanza l’offerta e viene deprezzata quando la domanda è scarsa rispetto all’offerta. In tempi di crisi il lavoro perde di valore, nella percezione generale. Quindi può essere in promozione, a svendita, in offerta speciale. Come qualsiasi merce.

L'attacco ai diritti dei lavoratori messo in atto con la legge 183 quindi viene da molto lontano, ben da più lontano, credo, del primo assalto all’articolo 18 nel 2002. Direi che parte almeno dal referendum sui punti di contingenza del 1985, e forse ancora prima dalla marcia dei quarantamila del 1980. Una talpa antilavorista che scava da ormai un trentennio nella società, nella politica, fino ad arrivare alle nostre coscenze. La Federazione della Sinistra, come uso ripetere fino alla noia dei pochissimi amici e compagni che mi leggono, dovrà qualificarsi per la forza e la convinzione con cui deve opporsi a questo ulteriore attacco culturale, prima ancora che normativo, alla dignità del lavoro. Con tutte le forze (tante o poche) di cui disponiamo.

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