martedì 6 luglio 2010

Intervento alla presentazione del libro "Memorie comuniste" di Renzo Bardelli


“Memorie comuniste”, ultima fatica editoriale di Renzo Bardelli è un libro ambivalente: da una parte una critica ferrea e spietata (che talvolta mi pare sfociare nel livore e nel risentimento, quindi difettando di “lucidità” dell’analisi) all’esperienza del cosiddetto “socialismo reale”, del PCI (specie di quello pistoiese), di tutto il movimento comunista internazionale del XX secolo. Dall’altra il riconoscimento del grande afflato ideale che ha animato la vicenda di quel partito.

Comprendo questa “ambivalenza”, perché dalle pagine di questo libro traspare la grande “passione” di Bardelli per il Partito Comunista Italiano. E come tutte le grandi passioni, quella di Bardelli per il suo vecchio partito, è un complesso di sentimenti anche contraddittori fra loro. Come i grandi amori che contengono sempre una stilla d’odio; come l’odio più intransigente, che contiene sempre un po’ di ammirazione. Questo mi pare essere stato il PCI per Renzo Bardelli. Il grande partito di popolo che lo accoglie, ne fa un dirigente ed un amministratore stimato, ma che dispensa grandi delusioni, affronti tutti politici, certo, ma che assumono una coloritura “personale”. Il grande partito che dà l’opportunità di conoscere il mondo (si vedano i viaggi in Grecia, Jugoslavia, Russia eccetera che Bardelli fa grazie al PCI), di conoscere persone dalle quali imparare, ma che fa anche piangere, e non metaforicamente.

Ma il libro di Bardelli non vuole essere solo un libro di memorie personali. Vuole essere soprattutto una ricostruzione storica delle vicende del movimento comunista pistoiese, italiano ed internazionale del XX secolo. E qui, devo dire, che il legame affettivo fra Bardelli ed il PCI, l’amore tormentato di Bardelli per il PCI, limita pesantemente l’obiettività della ricostruzione di quelle vicende storiche.

Parto dalla fine, non del libro, ma di quella storia. A pagina 19 Bardelli stigmatizza il fatto che in Italia ancora si parli di comunismo, e che chi oggi si dichiara comunista non ha prodotto, dagli anni ‘90 in poi, nessuna sostanziale elaborazione teorica che potesse proporre un modello politico, sociale ed economico che potesse essere di riferimento a coloro che aspirano ad una più compiuta ed ampia giustizia sociale. Tre considerazioni su questa affermazione. La prima, si dice implicitamente che nell’idea comunista è insita la ricerca della giustizia sociale. Avendo fallito il comunismo non è possibile altrimenti una “ampia e compiuta giustizia sociale”. Si tratta di accettare il duro responso della storia. La seconda: alziamo lo sguardo dalle nostre vicende nazionali e guardiamo altrove. Vedremmo che in molte altre parti del mondo si parla di comunismo o comunque della prospettiva di superamento del capitalismo da “sinistra”. E non parlo della Cina o del Vietnam, e nemmeno di Cuba o del Venezuela. Parlo di forze politiche che godono di un importante consenso che operano in Germania, Grecia, Portogallo, ma anche Francia, nel variegato e per molti versi contraddittorio movimento antimperialista latinoamericano che in molti di quei paesi è governo e a cui dovremmo guardare con occhi meno “europei”. Tutte esperienze che possono magari non chiamarsi “comunista” ma che in quel movimento ed in quell’esperienza trovano almeno una parte delle loro, non rinnegate, radici. Tutte esperienze che propongono limpidamente il superamento del sistema di produzione capitalista e la trasformazione in senso socialista. Quindi: nessuna anomalia italiana in questo senso. Semmai l’anomalia italiana è che in Italia la sinistra “anticapitalista” è più debole che altrove. Terza considerazione: Bardelli non ha vissuto in prima persone la vicenda di Rifondazione comunista. Se l’avesse vissuta (o l’avesse guardata con meno sufficienza) riconoscerebbe che in questi quasi 20 anni uno sforzo in questo senso è stato compiuto. La dizione “Rifondazione comunista” mirava appunto a questo. Si voleva, magari velleitariamente, “rifondare” non il partito comunista, ma il comunismo tout court. Non a caso, ad esempio, quel centralismo democratico che Bardelli stigmatizza a pagina 25 non ha mai avuto né teorizzazione né applicazione in Rifondazione comunista, partito mai monolitico ma sempre di fatto “contenitore” di diverse esperienze ed anche impostazioni culturali. Forse arrivando all’eccesso opposto. Oggi, dopo venti anni dall’inizio di questa esperienza, possiamo dire che la strada da fare è ancora lunga e difficilissima, ma la ricerca sincera, la messa in discussione, ci sono state.

Altro limite della ricostruzione storica di Bardelli: non si può proporre una storia del PCI che tralasci totalmente il contributo del PCI alla lotta di liberazione, alla redazione della Costituzione (che non a caso qualcuno chiama “sovietica”), al miglioramento delle condizioni di vita delle classi più deboli nel nostro Paese. Una quindicina di anni fa ci fu chi disse “il comunismo in Italia ha insegnato ai cafoni a non assaltare il municipio e poi piegare di nuovo la schiena per altri 20 anni ma ad organizzarsi e lottare per i propri diritti”. Questa fu la risposta di Rocco Buttiglione, allora segretario del PPI, a chi gli chiedeva conto del suo dialogo con Massimo D’Alema, allora segretario del PDS. Fare una storia del PCI e sorvolare su questo vuol dire fare una ricostruzione monca della storia di tutto il Paese. Non si può tralasciare l’esperienza di buona amministrazione locale delle cosiddette “Regioni rosse”, riconosciuta anche da autorevoli osservatori esteri (Robert Putnam, dell’Università di Harvard), di cui peraltro Bardelli è stato espressione.

Così come la ricostruzione della vicenda del “socialismo reale” non può, fermo restando il giudizio che se ne può dare, prescindere da due elementi oggettivi: il primo, il confronto fra Usa e Urss fu una guerra. Fredda, a bassa intensità, che utilizzava teatri periferici, ma comunque una guerra. Forse è stata la terza guerra mondiale. Secondo elemento (di diretta emanazione del primo): Usa e Urss si imponevano allo stesso modo nei confronti dei paesi satelliti. L’Urss vieta elezioni libere ed invade l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Polonia. Gli Usa, indirettamente, quindi in modo più raffinato (ma il risultato non cambia), provocano Colpi di stato dove quelle elezioni “libere” davano responsi poco graditi (si veda il Cile), appoggia feroci dittature anche in Europa (Grecia), invade o prova ad invadere paesi che rovesciano le dittature per instaurare sistemi comunisti (il Vietnam, ma anche Cuba), “patrocina” la costituzione di reti paramilitari clandestine nei paesi dove i comunisti potrebbero vincere le elezioni (si veda la vicenda Gladio in Italia). Con il maccartismo perseguita i comunisti in America e non solo: in Germania occidentale, ad esempio, il KPD viene messo fuorilegge ed i comunisti rimossi dagli impieghi pubblici. L’URSS finanziava i “partiti fratelli” in occidente esattamente come gli USA finanziavano le organizzazioni anticomuniste in oriente. E certo, seppur con minore diffusione, le violazioni dei diritti umani sono avvenute anche al di qua della cortina di ferro e anche dopo la fine della guerra fredda. Penso al “gulag” X-Ray di Guantanamo, su cui Amnesty International ha diffuso un dettagliatissimo dossier, che Barack Obama avrebbe dovuto chiudere l’anno scorso. Questo non modifica minimamente il giudizio negativo e senz’appello sullo stalinismo, sui gulag, sulla mancanza di libertà. Sui “muri” (ma anche qui, di muri ne esistono moltissimi ancora oggi, da quello di Gaza a quello del Messico, molto più lunghi di quello di Berlino, ugualmente militarizzati ed ugualmente letali, ma non se ne parla spesso). Ma, come sostiene il politologo francese Maurice Duverger, aiuta ad inquadrare e contestualizzare quella vicenda. E soprattutto dà l’idea che forse (ed io ovviamente ci credo) un “comunismo dal volto umano”, nella democrazia, è possibile. Non dimentichiamo che il comunismo si fa stato dapprima in un paese arretrato e feudale che non aveva mai conosciuto la democrazia, in un paese governato fino allora dallo zar, che era un autocrate. Su questo substrato culturale e antropologico si modelleranno anche i rapporti politici post-rivoluzionari. La storia non si fa con i “se”, ma è legittimo chiedersi quale sarebbe stato il volto del comunismo se la Rivoluzione proletaria si fosse affermata per prima, come avrebbe voluto Marx, in Inghilterra, in Francia o in Germania.

Francamente inaccettabili trovo invece certe affermazioni (pag. 33-34) dove si dice che il comunismo ed il nazismo sono praticamente la stessa cosa o dove addirittura si parla di cannibalismo. Le vicende sul cannibalismo le tralascio perché affermazioni del genere andrebbero circostanziate meglio e non basate su un “articolo di Repubblica del 2007”. Sull’equivalenza fra nazismo e comunismo (ed è singolare che chi lo afferma, Renzo Bardelli, abbia militato, seppur da posizioni critiche, per 7 lustri in un partito comunista) mi limito sommessamente a far notare che, prescindendo dalle applicazioni concrete, il nazismo è un ideale di sopraffazione che teorizza il diritto di una supposta “razza superiore” di soggiogare il resto dell’umanità. Discrimina su base razziale, cioè sulla base di ciò che si è e non si può fare a meno di essere. Il comunismo si pone come ideale di giustizia sociale e di eguaglianza fra gli esseri umani, quindi antitesi della sopraffazione e della discriminazione. Anche qui mi arrampico sulle spalle dei giganti, visto che questo giudizio è espresso dal sociologo statunitense Gordon Allport.

Infine, altra contraddizione che vedo nell’opera di Bardelli: il PCI è visto contemporaneamente come partito mosso da grande afflato ideale, si arriva a dire che è l’unico partito realmente mai esistito in Italia. Contemporaneamente è descritto come un popolo ottuso, accecato dall’ideologia, strumentalizzato da una manica di burocrati senza ideali e di scarso valore umano, unicamente attenti alla loro carriera, conniventi con le dittature dell’Europa orientale, all’interno del quale si muovevano, in sparuta minoranza e costantemente marginalizzati, “coloro che avevano capito”, come Bardelli. Ma se questa era la situazione non si capisce primo da chi potesse venire questo “afflato”, e secondo come facesse uno come Bardelli a fare il sindaco di una città capoluogo.

L’impressione, quindi, è che il forte coinvolgimento affettivo di Bardelli nelle vicende che narra e che vorrebbe riportare come ricostruzione scientifica di una pagina storica, infici pesantemente l’obiettivo con tanto impegno perseguito. Quando, giovane studente, preparavo la mia tesi di laurea su un argomento a cui ero e sono molto legato (il mio partito), mi lasciavo spesso andare a valutazioni molto emotive su quello che scrivevo, per cui una manifestazione ben riuscita diveniva “straordinaria”, una riunione vivace diveniva “appassionata”, l’impegno volontario dei militanti diveniva “generoso e disinteressato”. Il relatore della mia tesi allora, nel farmi notare che mi ero lasciato prendere un po’ la mano, mi ricordava che in una prospettiva storica le cose si vedono da lontano, per cui anche quelle che da vicino sembrano grandi, in realtà sono abbastanza piccole; per cui cose che da vicino possono sembrare molto significative, nella maggior parte dei casi sono piuttosto insignificanti. Ecco, questa presa di distanza dai propri sentimenti, questo guardare da lontano a ciò di cui si scrive, mi pare che difetti nel lavoro di Bardelli.

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