mercoledì 25 aprile 2012

Chi, come e perché porta l'Italia al disastro. Riflessioni su un saggio di Luciano Gallino

Mi è capitato di leggere un pregevole saggio di Luciano Gallino, scritto nel 2003, dal titolo La scomparsa dell'Italia industriale. Il sociologo scoperto da Adriano Olivetti ripercorre, con una analisi lucida e attenta, il declino della grande industria italiana, fenomeno che si verifica dagli anni '60 in poi e che dagli anni '80 subisce una brusca accelerazione. Gallino mostra come tutti i settori che avevano costituito i fiori all'occhiello della grande industria italiana (l'elettronica, l'areonautica, l'high tech, la chimica eccetera; non si parla dell'auto ma ancora si era lontani dall'era Marchionne) vengono via via smantellati. Scientemente. Con nomi e cognomi dei liquidatori: Roberto Colaninno, Marco Tronchetti Provera, Raul Gardini, Vittorio Valletta...





Vari sono i motivi che hanno portato ogni singolo settore al declino: situazioni debitorie dei maggiori gruppi industriali, impossibilità di mettere in campo investimenti adeguati in termini di innovazione e ricerca per stare al passo con la competizione internazionale, realizzazione di impianti sovradimensionati per intercettare fondi pubblici, operazioni finanziarie spericolate. Ma al di là delle singole situazioni quello che si vede chiaramente, nello sguardo lungo di Gallino, una strategia complessiva di dismissione dell'industria manifatturiera in Italia. Che ha almeno un paio di conseguenze: una riduzione della domanda di lavoro almeno tripla di quella richiesta dalla industria dismessa. Gallino stima infatti che l'indotto di una grande azienda manifatturiera a alto contenuto tecnologico occupi circa il doppio della forza lavoro occupata dall'azienda stessa. Inoltre la progressiva sostituzione dell'industria con il terziario porta, alla lunga, un peggioramneto nella bilancia degli scambi con l'estero. Insomma, se sostituisco una fabbrica di 500 dipendenti con un centro commerciale nel quale reimpiego tutti i 500 lavoratori intanto perdo 1000 posti di lavoro nell'indotto, e poi se non produco in Italia le merci che vendo (perché, appunto, rietngo che sia più "moderno" il terziario della vecchia industria) vorrà dire che le devo comprare dall'estero. S sfata quindi il mito dell'era post-industriale. La società post-industriale è una società destinata al declino. L'Italia negli anni '80 era all'avanguardia in Europa in termini di produzione, di salari, di tecnologia. Erano gli anni in cui superavamo Francia e Inghilterra. Oggi stiamo cercando di non fare la fine della Grecia e facciamo parte dei cosiddetti PIIGS.
Un dato interessante (e inquietante): molti "capitani coraggiosi" che hanno "accompagnato" il declino industriale italiano hanno ricevuto onoreficenze importanti: Colaninno una laurea honoris causa in Economia ed il titolo di Cavaliere del Lavoro, così come Tronchetti Provera. Entrambi hanno di fatto liquidato l'Olivetti; Valletta fu Senatore a vita e Cavaliere di Gran Croce, dopo aver costretto la stessa Olivetti ad abbandonare il nascente settore dell'informatica. parlò senza mezzi termini di "neo da estirpare". Una simile "intuizione" basterebbe a farlo ricordare con ignominia, invece è diventato Senatore a vita! Un po' come se avessero dato il premio "Fair play" a Materazzi e Zidane dopo la nota vicenda della "testata". In questa luce anche le più recenti vicende della Fiat (l'ipotesi dello spostamento del "cervello" negli USA) e di Ansaldobreda (il possibile acquisto da parte di Hitachi) acquistano un significato diverso. Perché Gallino dimostra come anche vendere aziende che rimangono i Italia a gruppi esteri non sia privo di rischi: innanzitutto perché non esiste garanzia alla permanenza effettiva degli stabilimenti in Italia, poi perché se la "testa" è altrove, vuol dire che "altrove" si decide cosa, come e se produrre.
Insomma: la deindustrializzazione italiana, accompagnata da una temperie culturale (creata ad arte) di "estremismo privatizzatore" in un paese dove gli investimenti necessari a stare sul mercato in termini di ricerca e innovazione potevano essere messi in campo solo dallo stato, di esaltazione della terziarizzazione e della finanziarizzazione dove da anni ci si affanna a dire che l'industria è finita e che gli operai non esistono più, che "piccolo è bello" (qui segnalo un articolo su Repubblica dello stesso Gallino, scritto l'anno dopo in risposta ad un altro teorico "decorato" della deindustrializzazione, l'ex ministro e Cavalire del Lavore Domenico Siniscalco) porta come effetto la dipendenza del Paese dal punto di vista produttivo, tecnologico, dei consumi, degli investimenti, della ricerca. Questa è la causa dell'attuale situazione del Paese: la deindustrializzazione così pervicacemente perseguita da governi e grande capitale da almeno cinquant'anni. Altro che articolo 18! Duecento anni dopo il congresso di Vienna, quando von Metternich definì l'Italia una "espressione gografica", l'Italia è di nuovo terra di conquista. Di americani. tedeschi, giapponesi, coreani, cinesi, ognuno nel proprio settore. Conquista economica e non militare, ma sempre di conquista si tratta.

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